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Un solo standard operativo per i mediatori? Anche no…

Titolo
A Pluralistic Approach to Mediation Ethics: Delivering on Mediation's Different Promises
Autore / Rivista
Bush, Robert A. Baruch
Editore / Libro
Ohio State Journal on Dispute Resolution (vol. 34, no. 3), 459-535
Anno
2019
Postato da: Carlo Mosca
Categoria: La Poltrona

In questo recente contributo, Baruch Bush (uno dei ‘padri fondatori’ dell’approccio trasformativo) torna sulla questione dei codici di condotta relativi all’operato del mediatore. La tesi di fondo – un codice unificato rischia di non tener in debito conto le differenze esistenti nei vari approcci usati dai mediatori – è già stata oggetto di precedenti lavori (in particolare ricordiamo l’articolo One Size does Not Fit All apparso sempre sul Journal qualche anno fa (19 Oh. St. J. on Disp. Res., 2004). In effetti, interventi che sono ammessi, se non consigliati in un certo approccio, possono risultare (di regola anzi risultano) non ammessi e sconsigliati in un altro. La soluzione più ragionevole pare quindi essere quella di prendere atto di una pluralità di modi di intendere la mediazione, tutti di principio leciti e ragionevoli; il che non può tradursi che in una pluralità di codici ‘etici’: un canone unificato potrebbe forse essere utile per disciplinare alcuni aspetti (a patto di mantenersi molto sulle generali) , ma non potrebbe risolvere le questioni di fondo dove approcci diversi conducono a comportamenti confliggenti.

Bush analizza in particolare le differenze fra modelli di mediazione che prevedono una approccio ‘protettivo’ da parte del mediatore, ed altri che invece danno priorità all’autodeterminazione delle parti. L’occasione è data da un caso-studio in cui due genitori separati concordano in mediazione che il nuovo compagno della madre possa passare le notti nel monolocale di questa, dove vive con la loro figlia undicenne, a patto che venga usato un separé per l’angolo in cui la ragazzina dorme.

Al contrario di un mediatore del secondo tipo, un mediatore del primo tipo (‘protettivo’) probabilmente avrebbe dei problemi con una soluzione di questo genere, se solo dubitasse che, anche se raggiunta di comune accordo dai genitori, essa non vada nell’interesse del minore.

Al di là delle convinzioni personali del mediatore, seguire o essere vincolati ad un codice di condotta potrebbe in pratica porre dei problemi? Per Bush, certamente sì: si pensi alla differenze fra i codici di condotta degli avvocati (ABA Standards for Family and Divorce Mediation) ed a quello in vigore per i centri di mediazione comunitaria che si svolga nell’ambito dei programmi ADR sotto supervisione del sistema giudiziario dello Stato di New York (OADR Standards for Community Mediation Centers). Il primo sposa un approccio tipicamente ‘facilitativo’, il secondo un approccio ‘trasformativo’. Secondo l’autore, l’approccio facilitativo incorpora la ricerca di soluzioni eque (agli occhi del mediatore) che tengano conto degli interessi di terzi deboli o non rappresentati (v. in part. il canone XI che prevede la possibilità per il mediatore di sospendere o interrompere la mediazione a fronte di accordi unconscionable, moralmente inaccettabili); il secondo, invece no (alla luce della preminenza della tutela del principio di autodeterminazione sopra ogni altro).

La lettura dell’articolo di Bush (che esamina in dettaglio altri canoni e le relative differenze fra i codici di comportamento) offre, in sostanza, molti spunti per un tema rimasto sino ad oggi, nel dibattito italiano, tutto sommato abbastanza sottotraccia. Esso peraltro non mancherà di presentarsi se e quando la mediazione nel nostro Paese verrà maggiormente utilizzata in contesti in cui – pur restando nell’alveo dei c.d. ‘diritti disponibili’ – debba tenersi conto di parti terze o presunte deboli (si pensi alla materia di consumo, al lavoro, oltre che naturalmente alle questioni familiari).

Autore: Carlo Mosca

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